Le recenti cronache politiche ci inducono a pensare che forse stiamo perdendo quelle che abbiamo da sempre considerato qualità umane: l’altruismo, la generosità e la capacità di metterci nei panni dell’altro, condividendo le altrui sensazioni.
Peculiare dell’uomo è il sentimento della compassione cioè “quel moto dell’animo che ci fa sentire dispiacere o dolore dei mali altrui, quali li soffrissimo noi”[1]. Per provare questo sentimento bisogna calarsi nella mente altrui ed abbandonare la prospettiva egocentrica, bisogna cioè mettersi all’ascolto.
Ascoltare non vuol dire semplicemente percepire suoni o parole ma, come ci insegna Plutarco nel suo “De recta ratione audendi”[2] , disporsi anche fisicamente ad accogliere il pensiero altrui, stare seduti senza pose rilassate o scomposte, tenere il busto eretto e lo sguardo fisso su chi sta parlando, prestare attenzione con una espressione del volto che non lasci trasparire distrazioni, arroganza o insofferenza.
Due narratori italiani contemporanei hanno svolto una puntuale riflessione su questo tema.
Mauro Corona scrive: “ Un essere umano non può tenersi dentro tutto. Quel che è accaduto va consegnato ad altri. Il passato, se rivelato, toglie peso, alleggerisce ”[3].
Erri De Luca invece affronta l’argomento dalla prospettiva di chi si mette all’ascolto “il nostro udito moderno si è fatto carezzare dall’alta precisione degli impianti stereo, stordire dalle amplificazioni delle sale da ballo e dai rumori meccanici più assordanti mai percepiti prima da orecchio umano. Il silenzio oggi è solo un disturbo dell’udito. Dio avrebbe grandi difficoltà a procurarsi ascolto, se volesse, ma non vuole. Ha già lasciato la sua voce scritta nel libro che si chiama Bibbia”[4].
Mettersi all’ascolto significa disporsi ad accogliere le informazioni che provengono dall’ambiente esterno, ma questa capacità di percepire, a parità di acuità uditiva, cambia con l’età e con il livello culturale, dipende inoltre dall’attenzione che si presta a ciò che si ascolta.
Il grande naturalista e ornitologo William Henry Hudson è riuscito a rendere bene questo concetto in un breve racconto [5] il cui protagonista settantenne, passeggiando in un campo, racconta a un amico che in quel posto da piccolo andava ad ascoltare le allodole ormai scomparse senza accorgersi mentre parla che un’allodola sta cantando sulla sua testa.
Talvolta l’età avanzata riduce la percezione uditiva o determina un disinteresse per l’ambiente circostante, persino per i familiari più stretti, mentre il corpo diventa il luogo privilegiato dell’attenzione.
Si realizza una forma di ascolto specializzato a percepire ogni suono proveniente dall’interno. Un borborigmo diventa segno premonitore di qualche malattia intestinale, forse un tumore. Il battito cardiaco, come un ticchettio di orologio sta lì a ricordare la fine imminente. Il cigolio delle articolazioni si fa suono spettrale come danza macabra. Tutto ciò mentre intorno i nipotini con i loro schiamazzi e i loro giochi disturbano il desiderio di quiete.
Ho recentemente visitato una paziente novantenne che mi ha elencato per molto tempo e con dovizia di particolari i sintomi che l’affliggevano senza accorgersi che nel frattempo gli occhi della figlia, anch’ella malata, si riempivano di lacrime per la pena di un’assistenza così faticosa. Quando le ho fatto notare che la figlia stava piangendo, ha scosso le spalle senza mostrare la minima emozione. La paziente non provava più empatia cioè aveva perso la capacità di comprendere cosa l’altra persona stesse provando e di entrare in sintonia percependone i sentimenti.
Il termine empatia deriva da “empatheia” (passione), un ingresso nella sofferenza dell’altro fino all’immedesimazione. I neuropsicologi definiscono teoria della mente questo modo di “vedere il mondo con gli occhi dell’altro” tanto da prevederne e manipolarne il comportamento.
L’uomo cioè è considerato un “mind reader” (lettore della mente) mentre gli animali, ed in particolare i primati sarebbero dei semplici “behaviour readers” (lettori del comportamento).
Nel nostro cervello tale attività è gestita da un gruppo di cellule nervose (neuroni specchio) scoperte negli anni novanta del novecento dal prof. Giacomo Rizzolatti. [6]
L’equipe del prof. Rizzolatti, studiando i neuroni motori (motoneuroni) delle scimmie, scoprì che alcuni di questi si attivano anche mentre l’animale osserva un’altra scimmia compiere un’azione.
I neuroni specchio, poi individuati anche nell’uomo dal prof. Marco Iacoboni [7], ci permettono di adottare il punto di vista dell’altra persona simulandone virtualmente le azioni.
La scoperta, che potremmo definire epocale, ha aperto un ambito di ricerca che sta dando risultati sorprendenti.
Il prof. Vilayanur Ramachandran [8], applicando all’uomo le ricerche di Rizzolatti, conduce esperimenti su un nuovo tipo di neuroni specchio, questa volta sensitivi, scoperti per caso da ricercatori dell’università di Toronto. Questi che Ramachandran ha definito “neuroni Gandhi” si attivano quando vediamo un’altra persona provare dolore fisico per esempio se viene punta con un ago. Proveremmo lo stesso dolore se i segnali provenienti dalla pelle non ci informassero che non siamo stati punti.
Ci spiega Ramachandran che questi neuroni “rendono meno netto il confine tra se e gli altri: non solo metaforicamente, ma anche alla lettera[9]” e prosegue affermando che “forse l’unica cosa che separa la nostra coscienza da quella degli altri è la pelle[10]”. L’uomo cioè, sarebbe biologicamente strutturato per empatizzare, comprendere la sofferenza fisica dell’altro e, grazie al sistema delle emozioni, essere motivato ad atti di generosità. Proprio l’attitudine alla generosità, che noi occidentali stiamo perdendo, era il tema dominante dei discorsi di Gandhi. Forse non è un caso che proprio in India, patria di Gandhi e del prof. Ramachandran sia nato questo precetto: “sii generoso come il legno del sandalo che profuma anche la scure che lo recide”.[11]
Era prevedibile che la scoperta dei neuroni specchio accendesse, in ambito filosofico, un dibattito tuttora in corso.
Vittorio Gallese [12] si avvale del pensiero di Nietzsche per spiegare come i filosofi avessero intuito la relazione tra movimento e sensazione senza conoscere i neuroni specchio “Per comprendere l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere, fa sgorgare dei sentimenti in noi analoghi, in virtù di un’antica associazione tra movimento e sensazione”. [13]
La relazione empatica, in ambito filosofico, è stata particolarmente indagata dalla fenomenologia[14] che studia gli eventi che si manifestano all’interno della coscienza, senza alcun riferimento alla realtà esterna, la dove invece la psicologia, scienza dei fatti, si occupa delle reazioni dell’ Io rispetto agli eventi esterni.
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[1] Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani
[2] Plutarco. L’arte di ascoltare; Mondadori. Collana oscar classici greci e latini.
[3] Mauro Corona, Come sasso nella corrente; Mondadori.
[4] Erri de Luca, Alzaia; Feltrinelli.
[5]William Henry Hudson. Il vecchio e la sua illusione ne “Il viaggiatore nelle piccole cose”; Franco Muzio Editore.
[6] Giacomo Rizzolatti direttore del dipartimento di fisiologia dell’Università di Parma
[7] Marco Iacoboni, docente di Psychiatry and Biobehavioral Sciences alla Facoltà di Medicina dell’Università della California a Los Angeles, dove dirige anche il Laboratorio di stimolazione magnetica transcranica
[8] Vilayanur Ramachandran dirige il Center for Brain and Cognition dell’Università della California a San Diego
[9] Vilayanur S. Ramachandran. L’uomo che credeva di essere morto; Mondadori.
10 ibidem
[11] Ramayana. Uttara – Kanda, 36, 4.
[12] Vittorio Gallese, docente di Neurofisiologia presso il dipartimento di neuroscienze dell’Università di Parma.
[13] Tratto da “Aurora” Nietzsche.
[14] Corrente filosofica fondata da Edmund Husserl (1859-1938)
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