Dario Antiseri sostiene che la civiltà europea affonda le sue radici nella spiritualità cristiana.
“Senza alcun dubbio, fa … presente de Reynold, «il carattere più appariscente e più costante (dell’Europa) è il contrasto, l’opposizione, la diversità, la complessità. Ecco il fondamento dell’unità Europea» – un fondamento che si alimenta del messaggio cristiano. L’Europa – dice de Reynold – deve, infatti, al Cristianesimo «il senso della spiritualità» e, insieme, «il bisogno di agire, il bisogno di creare (…) L’Europa è intelligenza e volontà: quando si è impadronita di una verità, la fa subito lavorare e agire. Questa nozione della fede attiva, laboriosa, è ancora al cristianesimo che la deve». E poi è proprio in base al messaggio cristiano che «l’Europa è capace di concepire l’unità della specie umana». E «da ciò deriva che la sua capacità di assorbire e di assimilare le forme di cultura, di pensiero, di vita, più estranee al proprio genio». E se questa è l’Europa, si fa allora chiaro che «la decadenza dell’Europa è la conseguenza di quella dello spirito cristiano. In teoria come nella pratica, l’unità dell’Europa non si ricostituirà, la decadenza dell’Europa non sarà arrestata che nella misura in cui le nazioni europee sapranno ritornare al cristianesimo, e al cristianesimo integrale, poiché ci si salva solo attraverso un ritorno al principio stesso della propria vita». Il male dell’Europa, conclude de Reynold, è «un male spirituale» [i].”
Galimberti[1] è sostanzialmente d’accordo con Louis Gonzague de Reynold ma aggiunge che l’avvento del cristianesimo ha determinato il superamento della civiltà greca perché quest’ultima rimane impigliata nella visione tragica dell’esistenza, compressa dalla irrazionalità del fato e dalla concezione del sacro. La cultura greca vedeva la sacralità come luogo mentale separato dalla dimensione umana tale da chiudere l’uomo nell’ambito ristretto dei suoi limiti in una condizione di ineludibile solitudine. Galimberti, non credente, si limita a dire che la forza del cristianesimo consiste nella fede della resurrezione dai morti, cioè nell’aprire un orizzonte di speranza negato dalla visione tragica della cultura greca.
La civiltà giudaica in effetti era animata dall’attesa dell’Emanuele (Dio con noi) inoltre il cristianesimo vede nella vicenda umana e divina del Cristo morto e risorto il compimento di quell’attesa per cui i cristifideles che, su invito esplicito del Cristo scelgono di seguirlo sulla via del Calvario, vengono riconosciuti dal Padre come figli, proclamati eredi del Regno e come tali godono della redenzione e della resurrezione dai morti.
Umberto Galimberti inoltre sostiene che il cristianesimo deve la sua diffusione e la sua fortuna alla civiltà e alla cultura greca che è stata la sintesi più significativa della sapienza antica e la più alta espressione di una cultura olistica che seppe dar luogo ad una visione antropologica dalle prospettive illimitate, tanto da suscitare l’invidia degli dei e il giustificato sospetto che prima o poi gli uomini avrebbero tentato la scalata dell’Olimpo [ii].
Nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, il coro canta: “Molte sono le cose tremende, terribili e mirabili (deinà) ma nessuna è più tremenda, terribile e meravigliosa dell’uomo”. L’uomo infatti non potendo adattarsi al mondo perché nato nudo, sotto il profilo delle competenze, utilizza la tecnica per adattare il mondo a se stesso ed ha quindi, nel progressivo sviluppo della conoscenza e delle competenze, una potenzialità illimitata, ma proprio qui si annida il suo limite; il cucciolo d’uomo sottoposto ad un lunghissimo periodo di apprendistato in un attrezzato laboratorio pedagogico, prima in famiglia poi presso il pedagogo, può sviluppare competenze logiche e tecniche illimitate che gli consentono anche di andare oltre la misura (catà metròn) oltre il limite che gli è stato imposto dalla natura e questo andare oltre attira su di sé l’ira e la vendetta degli dei.
La cultura occidentale per Galimberti è tuttora profondamente impregnata dai valori della cultura cristiana. E tuttavia, come si legge nella Sacra Scrittura, l’uomo è incline al male e non mantiene fede all’alleanza con Dio. In realtà ancor oggi, a seguire Gesù sulla via della Croce, non c’è la folla che acclamava al figlio di Davide al momento dell’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme. Gli uomini, oggi come allora, sono, per effetto del peccato originale, attratti dalle lusinghe del mondo.
Mentre scrivo, stiamo vivendo il tempo liturgico della quaresima tempo dedicato ad una profonda revisione di vita che ci prepara ad incamminarci sulla via della Croce con la conseguente rinuncia a tutto ciò che è marginale, perché non si perda l’essenziale cioè la salvezza frutto della Redenzione.
Karl Rahner nel suo libretto intitolato appunto “Croce e risurrezione[iii]” ci spiega che quando, nel labirinto dell’esistenza, si arriva ad un incrocio plurimo se scegli una direzione di fatto rinunci a tutte le altre.
“Cogliere un’occasione – egli dice – significa rinunciare a molte altre, a meno che non si possa contare su un periodo illimitato di vita.” La rinuncia però non è un valore fine a se stesso, è il presupposto ineludibile per non saccheggiare la natura, per dar da mangiare agli affamati, per dar da bere agli assetati, per vestire gli ignudi talché rinunciare al proprio tempo per visitare i carcerati, per prendersi cura dei deboli e degli esclusi significa farsi impregnare della carità di Dio, rendere visibile a tutti la sua misericordia nella consapevolezza che accogliere come propria la sofferenza, il disagio del nostro prossimo significa caricarsi della croce di Cristo, come il Cireneo, e percorrere con Gesù la via del Calvario. Maturare questa capacità di rinuncia “rende libera e sopportabile la nostra esistenza”[iv].
Solo in questo senso morire a se stessi non è un suicidio ma significa percorrere la via crucis con lo stesso passo di Cristo, significa lasciarsi illuminare dalla verità di Dio e vivere, qui e adesso, la sua vita divina. Se rinunciamo alla nostra pochezza non perdiamo qualcosa ma guadagniamo il Tutto. Solo con questa scelta il male sottile del nostro tempo (ampiamente documentato dalla letteratura contemporanea: il dolore cosmico di Leopardi e di Shopenauer, la frustrazione dell’impotenza di Kierkegaard[v], la disperazione di Michelstaedter[vi], la noia di Moravia [vii], la perdita di senso di Wittgenstein[viii] ) è debellato perché, come acutamente osserva Rahner, nel momento in cui come Gesù sulla croce, rimettiamo con filiale fiducia nella misericordia del Padre il nostro spirito, tutta la nostra vita è accolta e redenta nella sua resurrezione.
“Diversamente se ci ostiniamo a voler consumare tutto ciò che ci è stato messo in tavola ci esponiamo all’amara costatazione che il tempo che ci è dato da vivere è insufficiente ed inevitabilmente cadremo nel baratro della frustrazione e della insignificanza della nostra dimensione esistenziale” [ix]
Donato Pepe
[i] https://www.ilgiornale.it/news/cultura/grecia-e-cristianesimo-sono-i-genitori-delleuropa-1499771.html
[ii] https://www.youtube.com/watch?v=U_nQmCN_B6k
[iii] Karl Rahner, Croce e resurrezione, Edizioni San Paolo, Milano, 2000
[iv] Op.cit. pag.20
[v] Maria Rosaria Pepe, La Paralisi della Possibilità: Soren Kierkegaard e Regina Olsen, Telemaco Edizioni, Acerenza 2015
[vi] Maria Rosaria Pepe, Élan – Meditazioni tardo-filosofiche, Telemaco Edizioni, Acerenza 2017
[vii] Alberto Moravia, La noia, collana Classici contemporanei Bompiani Firenze 2017
[viii] Andrea Sormano, Grammatica del senso. Weber, Wittgenstein, Benveniste, Libreria Stampatori, Torino 2000
[ix] Karl Rahner, Croce e resurrezione, Edizioni San Paolo, Milano, 2000
Con tutto il rispetto degli illustrissimi sopra citati, mi pare che più che di radici, si dovrebbe parlare d’innesti, in quanto il cristianesimo ha faticato moltissimo a far fruttificare la Pianta sempreviva dell’Amore messa a domora da Cristo tra gli uomini. Ora, chi ha esperienza di agricoltura sa che la pianta porta innesto è pittosto selvatica e tende comunque a far crescere polloni propri in concorrenza… Fuor da metafora, è innegabile che la Storia dell’Europa, caratterizzata da una serie di guerre, divisioni, conquiste e soprusi, è agli antipodi della concezione cristiana della vita e della società. Storia di violenze, non di Pace, la nostra. (Vi lascio la Pace, vi do la mia Pace). Basti pensare che in nome dello stesso Cristo Cattolici e Protestanti se le son date di diabolica ragione. Tutt’ora il popolo che si professa cristiano (composto di Cattolici, Ortodossi, Avventisti, Testimoni di Geova, ecc. ) sono di fatto “sparpagliati”, non uniti. Le radici cristiane sempre vive, sepolte e /o avventizie, non sono una privativa dell’Europa, dell’Europa passata almeno, e attecchiscono ovunque si crede nella parola di Gesù-Luce (chiaramente rivelate nel Padrenostro). Un Padre-madre comune ci vuole famiglia: fratelli e sorelle uguali in dignità. Una civiltà in continuo divenire quella dell’Europa, dove, come altrove, “cadono” ogni giorno i semi della testimonianza. Evangelicamente germoglieranno e daranno frutti copiosi là dove il cuore li accoglie nell’humus del pentimento, della fede, della speranza e della carità, non sulla roccia dell’orgoglio, della prepotenza bellica e/o di Mammona. Perciò non a fondamento dell ‘Europa “Prima della classe” (che non ha fatto correttamente la staffetta col testimonio), ma a fondamento dell’Umanità rinnovata dalla consapevolezza della comune appartenenza all’Amore si realizza l’evoluzione verso destini imperscrutabili. Qui è già “perfetta letizia”. Tutto il resto (=resurrezione, paradiso ecc. ) è dato in sovrappiù. .
Caro amico,
tu sai che l’etimo di questo termine riconduce alla radice “amore” e, come aveva già teorizzato la filosofia presocratica, trova nella “contesa” il suo opposto talchè tra questi due poli si sviluppa l’energia dello slancio vitale. All’amore va ricondotta l’istanza della città di Dio, alla competizione, per usare un termine più moderno, va ricondotta l’alimentazione energetica della città degli uomini di agostiniana memoria.
L’antropologia americana ha sviluppato la teoria della mente bicamerale. Nella prima camera si svilupperebbe l’istanza dell’io che verrebbe alimentato dalle istruzioni (voci) provenienti dalla seconda camera ove risiede dio. Qui dio va scritto rigorosamente con la lettera minuscola perchè non gli si riconosce alcuna dimensione metafisica, sarebbe infatti l’immagine paterna di freudiana memoria. Secondo Julian Jaynes l’io perviene ad una coscienza autonoma man mano che si emancipa dalle voci provenienti da dio. Freud secondo la migliore tradizione cristiana riconosceva alla figura paterna una funzione educativa che pertanto non sviluppava una condizione di dipendenza o di minorità senza futuro. Nella Bibbia Dio é descritto come padre-madre che educa i suoi figli alla libertà del volo: “Proprio come l’aquila scuote il suo nido, volteggia sopra i suoi piccoli, spiega le sue ali, li prende, li porta sulle sue penne remiganti, Dio solo [li] guidava”. (Deuteronomio 32:9, 11, 12).
Caro Antonio, il mio modesto contributo, che tu hai voluto onorare di un autorevole commento, vuole essere un invito ad Acerenza per leggere insieme nell’iconografia della Cattedrale i tratti fondamentali della storia dell’Europa e delle sue prospettive di futuro.
Vieni e vedrai.
Un caro abbraccio.
Donato Pepe.
Grazie, Donato Verrò, a Dio piacendo, non perché non credo, ma per godermi con te la “lettura”, vaccinazione covid permettendo .