Se prendessimo ad esempio il coronavirus e la sua rapidità di mutazione avremmo a modello i “salvini e i renzi” del tempo. Ma non solo. Anche di tanti altri che hanno responsabilità istituzionali. Tra questi Il ministro Patrizio Bianchi, titolare del dicastero dell’istruzione. Con un’altra delle sue dichiarazioni pubbliche il ministro, non solo giustifica, e fin qui ci siamo, ma con una sorta di investitura dà valore alla didattica a distanza. In questo periodo di guerra che ha già lasciato sul campo 100.000 morti sappiamo che è l’unico mezzo per garantire, sebbene al ribasso, il diritto allo studio agli studenti. Di contro sappiamo che alcune parole profferite da chi dovrebbe sapere quali sono le finalità della scuola producono disorientamento. Anche in futuro, quando la pandemia sarà alle spalle, la didattica a distanza, secondo il ministro, occuperà uno spazio tra gli strumenti didattici usuali in tempi normali. Dietro certe dichiarazioni si intravede una cultura che ignora, direbbe John Dewey, l’interazione del binomio scuola–società. La visione riduttiva della scuola non solo ridimensiona la sua reale connotazione ma decreta la sconfitta dell’intera società. A chi ha responsabilità istituzionali che, nel caso del ministro sono amministrative e politiche insieme, non è consentito usare proposizioni dichiarative e dare così per scontata una sua lunga permanenza al dicastero dell’istruzione. A maggior ragione non è consentito a un ministro che fino a ieri era il coordinatore di una commissione a cui la ministra Azzolina aveva affidato il compito di studiare tempi e modi del rientro degli studenti in classe. Il ministro però si giustifica. “ Ieri ragionavo da non ministro oggi ragiono da ministro”. Questa potrebbe essere la premessa principale di un ragionamento deduttivo. La seconda premessa mediata potrebbe essere: ieri Bianchi eseguiva pedissequamente la volontà del ministro pro-tempore oggi segue la volontà di chi inneggia alla didattica a distanza. Ed eccoci al sillogismo di aristotelica memoria. Ieri non ero ministro e dovevo sottostare alla volontà del ministro.Oggi le condizioni sono cambiate. Dunque eseguo la volontà di chi rappresenta il fallimento della scuola e della società. Da un punto di vista formale il ragionamento non fa una grinza. Se il contenuto fosse questo, chi vive la scuola come dimensione educativa e sta in frontiera tutti i giorni resterebbe ammutolito. Ogni termine ha un peso. Le parole dette da un ministro pesano come un macigno anche se frutto di una leggerezza senza giustificazione. E con buona ragione finiremmo per rispolverare il luogo comune: “ Non ho parole”. C’è di più. Se nella bocca del ministro tanto dovesse avere il significato di innovazione didattica, speriamo di no, andrebbe ricordato che su queste poche battute si concentra il dibattito pedagogico. Didattica innovativa è pianificazione controllata in una struttura che apre spazi a interventi individualizzati, è apertura che adegua la scuola alle rapide trasformazioni della società, è negazione delle improvvisazioni, è creazione dei supporti necessari perché gli operatori della scuola non rimangano soli con se stessi. In altri termini si tratta di creare una scuola dallo stile sperimentale che si attesta sulla costante verifica dei contenuti dell’apprendimento avvalendosi di procedure a feed-back. Si tratta di problemi a cui corrispondono varie soluzioni possibili, aspetto quest’ultimo scientificamente pregnante. Tanto richiede il superamento di procedure basate sulla routine e dà spazio a mentalità che si calano fenomenologicamente nelle situazioni, ne diventano parte integrante in quanto scientificamente interessate. Merleau Ponty insegna. Eccoci al metodo scientifico, magari a quel metodo che si muove sulla linea “ problemi, teorie, critiche” con alla base l’obiettività , intesa secondo Popper, “ come uno scopo e non come un fatto acquisito”. Una scuola innovativa non nasce da dichiarazioni approssimative: richiede buone dosi di creatività, buone conoscenze tecnologiche, approfondita analisi della oggettività delle singole situazioni e conoscenza delle tecniche da utilizzare. La scuola innovativa dà risposte alle esigenze di cambiamento presenti nella società; anima culturalmente e socialmente l’attuazione di processi partecipativi e si apre alla cultura ambientale; propone una sintesi tra i valori della tradizione e quelli del mondo moderno; favorisce la partecipazione delle famiglie a tutte le fasi organizzative e operative della giornata educativa. Da qui la necessità di un discorso pedagogico che si cali per intero nella progettazione di una ricerca di modelli verificabili in senso logico-procedurale. Al ministro bisogna consigliare che muova da qui. Produrrà un grande l’effetto . Risparmierà l’ascolto di dichiarazioni approssimative a chi conosce e vive le finalità della scuola.
Caro ispettore Francesco Nacci, caro preside Emanuele Vernavà,
Le vostre provocazioni in rete e sui giornali non vanno lasciate cadere! Non si può risolvere il problema dell’educazione modificando semplivemente i tavoli con i piedi a rotelle per superare la ritualità statica della liturgia della classe. Non può bastare mettere sui tavoli non il θυμὸς, il “mi sta a cuore” dei docenti e dei ragazzi ma la lezione fredda anzi gelida del computer.
Lo spartiacque, pardon, il κλινάμεν dell’educazione non sta nella digitalizzazione informatica, pur tuttavia necessaria per ridurre la complessità dei linguaggi della modernità, ma bisogna rimettere in auge la cultura classica perché non si sconvolga la gerarchia degli autentici valori umani. La parola chiave come Emanuele suggerisce é il coraggio di rimettere in classe la pedagogia maieutica della levatrice di socratica memoria.
Spero di trovare il tempo nei prossimi giorni per tentare di spiegare con gli strumenti della psicanalisi il mito dell’anello di Gigi avendo però lo sguardo rivolto agli epocali eventi che stanno animando la politica economica e sociale dei nostri giorni.
Intanto grazie per gli stimoli preziosissimi che avete offerto alla nostra attenzione.
Con affettuosa deferenza
Donato Pepe