“Non ci riempiamo la bocca della parola pedagogia!”, avvertiva durante un pranzo di lavoro Enzo Cervellino. Si rivolgeva essenzialmente ai capi d’istituto di primo pelo, infervorati ed acculturati sui libri di testo indicati dagli “esperti” per il concorso. Oggi, dall’altezza dei miei anni, la stessa apostrofe la rivolgerei a chi parla di riforme nei diversi campi della vita sociale. In Italia si parla di riforme almeno dal 1948, l‘anno dell’entrata in vigore della Costituzione, la Magna Charta della Repubblica,non “octroyeé” come lo Statuto Albertino , col quale inizia la Storia dell’Italia unita. In quegli anni c’erano due emergenze, quelle provocate dalla guerra sulla “morfologia” del territorio e quella sulla “metamorfosi” della vita sociale. Il “recovery fund”, allora Piano Marshall concesso all’Italia, venne utilizzato per porvi rimedio. Propiziato, secondo la mia modesta opinione, da Alcide De Gasperi, che nell’incontro a Parigi del 10 agosto 1946 con i rappresentanti delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale , riuscì, con dignità, animo sincero e leale, a far rientrare il nostro Paese tra quelli che avevano combattuto una guerra fino all’ultimo sangue contro il fascismo ed il nazismo e senza subire, anche per la lontananza geografica ( ma non politica) dell’URSS in quel momento di Stalin, la lunga e drammatica costruzione del “Muro di Berlino”: “ Prendo la parola in questo consesso e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato … Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese … di parlare italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista” a nome della nuova Repubblica, nata dall’ideale risorgimentale mazziniano della fusione delle istanze “universalistiche del cristianesimo” e quelle dei lavoratori dei nuovi tempi. Da allora il filo rosso di “pensiero e azione” è stato quello delle riforme. Ma esse furono intese, dopo la scomparsa di De Gasperi, come la spartizione di una gigantesca torta ch’era lo Stato. Ma ognuno degli aventi “diritto”, nella spartizione,cercò di utilizzare il potere leonino, quello della famosa favola di Esopo o Fedro. E poi, gli aventi diritto, erano quelli delle classi veramente borghesi, che cioè vivevano nei “borghi” al tempo del feudalesimo e dei servi della gleba, e ben separati da quelli che vivevano nei “paesi”. Su questi due termini mi deve essere consentito, soprattutto da quelli che mi accusano di mettere “troppa carne a cuocere” e menar il can per l’aia, una breve spiegazione di carattere storico-sociologico, di fondamentale importanza in questo nostro caso. Il “borgo”, anche per chi non ha mai avuto motivo di pensarci, rimanda immediatamente al tedesco “burg”, già in uso all’inizio del Sacro Romano Impero. Faceva riferimento alle classi, clero e nobiltà, che vi abitavano e nel cui centro c’era il castello del feudatario o del castellano. Abbarbicati ai piedi del suo muro di cinta, lentamente nacquero i villaggi, quelli degli artigiani che lentamente, attraverso la storia, divennero “terzo stato”, quello della Rivoluzione francese. “Paese”, invece, usato soprattutto nel Centro Sud, dominato allora dai Normanni prima e poi dagli Angioini, rimanda al francese “pays”, latino “pagus”, da cui “payen”, in italiano “pagano”( da cui Ugo dei Pagani, che secondo versioni “nostrane”, avrebbe fondato i Templari). La cosa fondamentale da aggiungere è che “pagano”, al tempo dei Romani, indicava gli abitanti del “pagus” e, nella sottodimensione di “villa”, i “villani”. Questa divisione sociologica rimase fino a quando, dopo Costantino, dove non era arrivato il cristianesimo, i “pagani” subirono una cancellazione sia fisica che culturale. Da Noi, dopo De Gasperi, al tempo di quella lotta disperata tra i componenti del patto leonino, i “paesani” fuggirono in massa verso altri Paesi del Mondo, soprattutto verso i Paesi europei, dopo la fuga tra il XIX e XX secolo dopo l’Unità. Come si può notare, mi si perdoni questa piccola riflessione, l’”apartheid”, o la guerra come “ igiene della storia”, è una creazione del tutto involontaria del “vincitore”: tutti i “posti” di comando, di controllo e di “potere”, vengono occupati dai fedeli del Capo del momento. Capo che subito si rende conto che se vuole mantenere il potere fino a quando il Signore gli dirà”basta!”, deve far presidiare dai migliori dei suoi fedeli i posti fondamentali di snodo dell’economia, della cultura, dell’amministrazione. Non c’è consapevolezza, in noi che galleggiamo su questo profondo mare del passato, che le riforme rispondano alle esigenze dei “vincitori”. E solo qualche vocina, come il birichino della favola di Andersen “il Re è nudo!” , si leva contro questa messinscena, come l’altro giorno, sulla Stampa , quella di Elsa Fornero, quando “osa”dire che la Scuola o diventa come quella anglosassone, oppure è inutile rifare la “casa” con la “riforma”. E, aggiungo io, col posto del “capo” da una parte ed i “sottoposti” dalla parte opposta, insomma cattedra e banchi, questi da ben controllare. Per non farla lunga, la riforma vera non è la rivoluzione, quella che nella storia non ha mai cambiato alcunché, se non il passaggio del potere dal vinto al vincitore. La rivoluzione vera è quella dell’incatenato di Platone, che nell’incontro col Bene, declina la sua discesa verso i compagni rischiando la vita per aiutarli a rompere le catene. Quasi mai gli andrà bene, perché spesso qualcuno di questi gli si ribella e lo uccide. Successo tante volte nella storia ed ancora oggi. Draghi, comunque, con questa tipologia di riforme, deve tener presenti le parole di papa Francesco parlando del Vaticano: “ farebbe come chi volesse ripulire la Sfinge con uno spazzolino da denti”.