Ha destato molto interesse l’articolo di Emanuele Vernavà dal titolo: “Ursula Von der Leyen e l’anello di Gige”. L’articolo era già apparso sul Quotidiano del sud in data 7 maggio, lo abbiamo riproposto sul nostro blog perché pensiamo sia utile un’approfondita riflessione sulla narrazione mitica soprattutto perché osserviamo che il mito può svolgere ancora oggi una funzione profetica sulle dinamiche spirituali, culturali, civili e sociali del nostro tempo.
Riscrivo intanto la storia di Gige il giovane pastore che nella versione di Platone , seduce con la sua audacia la Regina di Lidia e a sua volta rimane abbagliato dalla sua bellezza.
Gige è un mandriano che si prende cura degli armenti del re.
Un bel giorno il cielo si rabbuia, la terra, scossa da un terribile terremoto, apre una voragine davanti ai suoi piedi. Il pastore non si scompone. Sente che la madre terra, che si ammanta di vita nella feconda giovinezza della primavera, mentre apre il suo seno per lui, gli manifesta la sua materna benevolenza.
Gige scende dunque nella orrida voragine dove riposa un enorme cavallo di bronzo dal ventre cavo. In quella cavità vede il cadavere di un gigante con un anello d’oro al dito.
Gige, che ha sempre sentito il fascino della straordinaria potenza dei giganti, riconosce in quell’anello il dono della divina Gea, sfila l’anello dalla mano inerte e lo infila al suo dito.
Poi va alla reggia per fare al re il consueto rendiconto del proprio lavoro e dello stato dei suoi armenti. Strofina l’anello per renderlo più brillante e pulito giacché vuole mostrare al re il prezioso monile sottratto al gigante. Nel nel fare ciò rivolge il blasone dell’anello all’interno del palmo della mano ma giunto all’ingresso del castello si rende conto, con meraviglia, che un manipolo di guardie lo lascia passare senza chiedergli alcunché e senza perquisirlo come avveniva di solito.
Il pastore comprende di essere divenuto invisibile e ne approfitta per visitare indisturbato le segrete della reggia fino all’appartamento riservato all’avvenente e giovane regina impegnata in un bagno rigeneratore.
Abbagliato dalla sua bellezza, Gige, gira il blasone dell’anello verso il dorso della mano perché vuole che la regina ne apprezzi il valore e la bellezza degli intarsi nell’oro.
A questo punto le ancelle si accorgono della presenza di un intruso che sta violando la riservatezza degli appartamenti della regina e, superato il momento di sorpresa, si ricompongono frettolosamente nell’abbigliamento per tentare di fuggire e chiedere aiuto. Ma la regina impone loro il silenzio e la calma. Ella infatti, affascinata dal giovane e coraggioso pastore, lo accoglie nella sua intimità.
Scoperto il funzionamento del misterioso anello i due giovani, invaghiti perdutamente l’uno dell’altro, ne approfittano per vivere una lunga esperienza di incanto, poi decidono di dare al loro amore un respiro di eterno. Ordiscono un agguato contro il re e lo uccidono. Così la regina potrà insediare sul trono di Lidia il suo nuovo irriducibile amore.
Caro Emanuele, sotto il profilo letterario il tuo racconto è più nobile di quello che stai leggendo qui perché tu traduci dal greco e citi riferimenti bibliografici di cultura classica e moderna. Io invece, figlio di contadini, conosco la nostra tradizione orale, erede diretta degli antichi miti.
Il nostro sud è attraversato dai sentieri che conducevano ai santuari della pietà popolare. I pellegrini procedevano a piedi su questi percorsi cantando le storie dei santi. Ogni storia si chiudeva all’incirca così.
“Vi ho cantato, con l’aiuto del santo, la sua storia come mi è dato di ricordarla, chi avesse qualcosa da aggiungere può continuare, a maggior gloria di Dio”.
La logica testuale della tradizione orale è libera e creativa, la prassi della scrittura e della stampa ha invece prodotto testi che restano statici per sempre come il cavallo di bronzo di Gige. Per questa ragione pur non avendo assistito de visu agli eventi di cui narro perché cieco come Omero, ho aperto gli occhi della creatività ed ho rielaborato il racconto per adattarlo alle mie esigenze di cantastorie.
Nella versione di Platone, infatti diversa da quella di Erodoto , si attribuisce alla visione una fonte essenziale di informazione per la conoscenza umana, ma nella narrazione mitica la si trascende per attingere alla conoscenza ultrasensoriale, creativa, non disponibile per lo storico che invece, condizionato dal metodo scientifico non può che attingere a documenti archivistici, ad iscrizioni litiche e reperti archeologici.
Fra le più ricche e significative antologie mitiche ricordiamo i poemi omerici. Omero, non vedente, non può essere considerato testimone attendibile degli eventi che narra, nonostante i numerosi riscontri archeologici emersi nel tempo. In realtà Omero non è condizionato dal rigore metodologico del linguaggio storico ma del più libero e creativo linguaggio poetico. Tuttavia non è corretto qualificare la sua narrazione come irrazionale, illogica, onirica. La tradizione orale che si trasmette di padre in figlio non può considerarsi insignificante perché nessun padre alimenterebbe l’intelligenza dei figli con fole, ossimori o fantasie inconsistenti.
In realtà la narrazione mitica è significativa perché non si occupa prioritariamente di raccontare eventi ma di cogliere la qualità delle relazioni che le comunità arcaiche strutturavano a livello interpersonale, nell’ambito della comunità religiosa e in relazione all’ambiente.
Sottoposta ad un approfondito studio antropologico la teogonia mitica registra come dato prevalente la mai risolta contrapposizione tra la femminilità custode della sacralità della vita e la violenza maschilista che tende a svilire l’amore riconoscendo a se stesso, un ruolo di potere tirannico sulla comunità degli uomini e sulla natura. Sul nostro territorio il culto della dea Mefitis, documentato a Serra di Vaglio, riconosce alla madre terra una valenza sacra, culturale e civile.
Nella versione platonica del mito che stiamo esaminando, di fronte alla drammaticità del terremoto, Gige non si ritrae ma si rifugia nella voragine apertasi davanti a lui consapevole che ogni evento critico che induce sofferenza prelude a un dono .
Il cavallo è sinonimo del fascino, dell’eleganza, della ricchezza e nobiltà della cavalleria. I potenti muscoli, l’impressionante accelerazione nella corsa, la docilità alla volontà del cavaliere assicura all’uomo forza, ricchezza, e ruolo sociale. Ma il cavallo che Gige trova nella voragine è di bronzo, nella sua immobilità ha il ventre freddo, vuoto non può essere fecondo, eppure Gige vi trova disteso un gigante senza vita che esibisce un’inutile anello d’oro. In analogia con la tradizione omerica mi viene da pensare che si tratti dell’anima irascibile di Achille paralizzata dalla morte, e imprigionata nell’anello del gigante.
La narrazione contiene una sorta di ammonizione interiore che si pone alle radici dell’etica e del logos, funzioni essenziali per la coesione e e lo sviluppo della comunità civile. La trama della narrazione mitica si organizza su una elementare struttura logica che non ha ancora maturato la capacità di darsi un telos, un obbiettivo. Il mito non può essere datato o collocato in un preciso contesto topologico. La funzione mitica nasce al primo schiudersi degli occhi di un cucciolo d’uomo quando egli resta affascinato dalla prima esperienza della luce. Ecco, appunto! Dalla traccia mnestica di questa fascinazione sboccia, come un fiore, l’evento mitico che, prima o poi, darà luogo alla narrazione.
Diversi studiosi, oggi, definiti i canoni rigorosi del linguaggio scientifico, tendono a pensare che il linguaggio mitico incoerente rispetto a quei canoni sia irrazionale e persino perverso, secondo l’idea che Freud aveva maturato sul cucciolo d’uomo.
In realtà il linguaggio mitico non è irrazionale né perverso. Il logos di quella narrazione è condizionato dall’immaturità dell’infanzia o dal primo livello evolutivo del gruppo sociale che si muove nel pensiero mitico. L’uomo primitivo attribuisce un’anima sia alla meravigliosa fecondità della natura che alla forza devastante delle tempeste e dei terremoti.
La bellissima Venere che nasce dalle acque del mare e che ha sulle gote il colore pudico delle magnifiche aurore vince sia sui rovinosi maremoti di Nettuno che sui fulmini devastanti che esplodono dall’ira di Zeus.
Naturalmente al linguaggio mitico non si può attribuire la valenza e le interazioni documentate dal linguaggio storico. Agli aventi mitici non si può attribuire alcuna relazione di causa ed effetto né esprimere un giudizio etico o morale perché agli albori della civiltà umana quando gli uomini alimentavano la loro giovane intelligenza con la logica dei miti non c’era ancora una nozione di legge, né di giustizia, giacché non era ancora maturata la nozione giuridica del diritto.
Nella società dell’ homo homini lupus teorizzata da Thomas Hobbes e in qualche modo accolta anche dal Machiavelli si riconosceva al più forte , come situazione in qualche modo normale e perfino necessaria, il predominio sui più deboli, e la consuetudine ad asservirli. Ma già nel mito dell’anello di Gige, si intravede affiorante un bisogno inespresso di liberazione per cui Davide che con la sua fionda uccide il gigante Golia, Paride che, con una freccia avvelenata, uccide Achille, Teseo che grazie al filo di Arianna uccide il Minotauro ed esce salvo dal labirinto sono eroi mitici colti come un anelito di liberazione per tutti i loro simili cioè per coloro che non riescono a vivere negli spazi ristretti dei propri limiti e sentono come cogente il bisogno di andare oltre misura.
In tutte queste storie il protagonista è maschio, ma la sua energia deriva dall’amore di una donna . Non importa che si chiami Elena, Giunone, Arianna, Venere o Cleopatra si tratta comunque di una donna che non si sente inferiore, non insegue fantasmi maschilisti ma abbandona la sua veste di bruco e si fa farfalla per entrare nel mito e riconoscersi dea anche senza l’anello del gigante di Gige.
Nella infausta esperienza pandemica che stiamo vivendo abbiamo dovuto rinunciare alle relazioni per noi vitali ma in compenso abbiamo potuto assistere ad alcuni significativi eventi mitici come quello di papa Francesco che solo, senza il rituale seguito, attraversa sotto la pioggia la deserta piazza San Pietro con passo lento, affaticano, malfermo per raggiungere un altro uomo, anche lui solo, inchiodato su una croce e lì Francesco prega per tutti gli uomini che soffrono di solitudine, malattia, abbandono. Egli sa bene che la Pandemia non è un castigo di Dio, papa Francesco non è nelle vesti di Priamo che cerca di mitigare l’ira di Achille per la morte di Patroclo per poter dare degna sepoltura a suo figlio Ettore. Papa Francesco prega come l’uomo oggi non sa più fare. Egli affida ad un dio crocifisso la sofferenza di tutti i popoli della terra e lo fa con il linguaggio del silenzio perché il nostro dizionario non ha parole adeguate.
Ecco appunto, per papa Francesco le parole popolo/persona non sono riconducibili ad una categoria logica e tanto meno mistica ma appartengono al linguaggio mitico dove le relazioni interumane non si fondano sul consenso o sul marketing ma sulla logica dell’amore oblativo che l’antropologia contemporanea dileggia come fantasma sacrificale .
Come argutamente faceva osservare Emanuele Vernavà sul Quotidiano del Sud, un’altra figura mitica emersa in questo fecondo periodo pandemico è una donna, presidente dell’Unione Europea, Ursula Von der Leyen che viene in Italia in occasione del G20 ed esibisce come suo motto una espressione di uno sconosciuto prete italiano Lorenzo Milani, un sacerdote da noi tenuto in poco conto perché populista o peggio comunista. L’espressione è i care, mi sta a cuore.
Nel seno di Ursula c’è un cuore, la sede dell’anima concupiscente direbbe Platone. Nel petto dei migliori, c’è una calcolatrice a pile, magari duracell ma non ricaricabile.
Si dice che dopo la pandemia nulla sarà come prima, forse, ma in quel caso sarà necessario riscrivere con Platone il mito della biga giacché per orientare al Bene la persona umana non basta un’anima razionale, un’anima concupiscibile ed un’anima irascibile, serve che l’anima razionale sia comunque a sua volta governata dalla logica dell’amore oblativo e tenga saldamente le redini del cavallo bianco e del cavallo nero della biga di Platone.
Caro Donato, io fino a undici anni ho fatto il pastore. Il mito rappresenta i moti dell’anima concupiscibile e, quindi, come Omero, anche noi siamo ciechi e non ci vediamo che come la potenza e la bellezza del cavallo nero. Al riguardo tu allarghi alla storia ed alla questione omerica del Momsen il tuo orizzonte con una riflessione degna di un essai di Montaigne. Aggiungerei soltanto che l’ anello di Gige non è altro che l’allegoria dell’ “ascensore sociale”, che nella Nostra sociologia ha il suo “cuore” ( non nel senso che dice Ursula von der Leyen!) nella Scuola, aiutando i più bravi degli incatenati di Platone a sedurre la bella moglie del Re, con la cui complicità lo uccidono e tentano di prenderne il posto. Questa tua riflessione va, per il momento, nella mia “casciaforte”.