di Maria Rosaria Pepe
“La paura è uno dei sintomi del nostro tempo” (E. Junger, Il trattato del ribelle, 1951). Il terrore dell’uomo moderno ha caratteri particolari e si alimenta, secondo J., dall’avanzare e dallo specializzarsi sempre più incalzante di quello che egli chiama l’automatismo, il dilagare, il perfezionarsi della tecnica. È questo un problema? Lo è, per lui, come lo è per Heidegger (La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, 1954): immaginandosi il progresso della tecnica come l’avanzare di una nave (e J. prende ad esempio l’affondamento del Titanic del 1912), lo vediamo tratteggiarsi come un fenomeno in chiaro/scuro (“il massimo comfort con la distruzione”; pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è disposto a limitare il proprio potere di decisione”); sarebbe quindi impossibile rimanere sulla nave e conservare la propria autonomia di decisione, rafforzare oltre che conservare le radici “che affondano nel suolo originario”. Si tratta di sottrarsi, sostiene, all’annientamento. Posto che, però, la paura non si lascia sconfiggere del tutto (poiché ciò costituirebbe una nuova forma di dominio (“chi mette fine allo spavento legittima con ciò stesso la sua pretesa di dominio”), di essa è necessario fare un interlocutore dal momento che tende al monologo, chiude l’uomo finché il suo tentativo dialogico diventa un monologo. Costretta invece al dialogo, a diventare un tu, essa permette all’uomo di prendere la parola e, caduta la sensazione di accerchiamento, si aprono due vie: la prima, restare sulla nave (dove “non si parla più di destini e ciascuno è soltanto un numero”). La decisione per la seconda via, quella della singolarità, è propria e solitaria: qui “il singolo è sovrano oggi esattamente come in qualsiasi altro periodo della storia”, e allora egli diventa antagonista del Leviatano se non suo domatore. Il singolo di J. va spogliato di quel retrogusto che al termine era stato associato negli ultimi due secoli a lui precedenti. Quindi parliamo di un uomo libero (“come Dio l’ha creato, l’uomo che si nasconde in ciascuno di noi, e non costituisce un’eccezione, né rappresenta un’élite”): libero di dare l’assenso alla seconda via, il porto, il paese natio –scrive – la pace e la sicurezza che ciascuno porta dentro di sé. Junger lo chiama bosco. Navigazione oppure il bosco, sono queste le vie alternative. “Dioniso, rapito da naviganti tirreni, fece avviluppare pampini di vite ed edera intorno ai rami dell’imbarcazione, e i rami a poco a poco si fecero più alti degli alberi. Dal folto di quella foresta balzò fuori la tigre che sbranò i briganti”. La libertà è libertà di essere, oppure è sopravvivenza. Il regno della nave è costellato di parole, nel bosco vive il silenzio o parla il Verbo. Il passaggio al bosco è la risposta al bisogno ed alla chiamata della libertà. “Qui l’uomo incontra se stesso nella propria sostanza indivisa e indistruttibile”. Passaggio al bosco, autenticità, via della persuasione. Così la chiamava invece, quarant’anni prima, Michelstaedter, questa scelta per la libertà, anche se ancor più radicale e se possibile solitaria: la ricerca dell’”ottima vita” fine a se stessa poiché la vita –scriveva – non ha altro scopo se non la vita stessa (C. Michelstaedter, Dialogo della salute, 1910). Finalità impegnativa questa di votarsi alla via della persuasione, non ancora autentica qualora mascherata di ottimi intenti che non si distacchino però dall’inautentico, dalla rettorica”: “faccio in miei doveri d’uomo, di figlio, di cittadino, di cristiano – dicono molti- e a questi doveri commisurate i diritti. Ma il conto non torna” (C. M., La persuasione e la rettorica, 1910). La via della persuasione è insomma iperbolica perciò gli individui “per la paura della morte s’accontentano di vivere senza persuasione”. L’autenticità è avere, nel possesso del mondo, il
possesso di se stessi: il che significa secondo M. sentirsi nel deserto “fra l’offrirsi delle relazioni particolari”. Si tratta di una scelta che si attua quando si intenda “lavorare nel vivo il valore individuale”. Atteggiamento non comune né facilmente sostenibile ma fedele all’insegnamento dell’oracolo di Delfi: conosci te stesso. E così scriveva a sua madre nel 1910 “perciò non ho nulla da temere dalla vita, niente mi può cambiare, niente mi può fermare”. Il fatto che l’epilogo della vita del giovane goriziano fu soggetto ad una scelta altrettanto drastica non sottrae valore all’autenticità ed originalità del suo pensiero.